
IN MORTE DI UN GATTO
Nell’assordante silenzio delle parole parlate e pensate, di immagini tradite, di finti e veri amori, di convenzioni, di prevaricazioni, di sguardi d’invidia, di delusioni e di gesti mancati, sorrisi mancati, espressioni mancate, di voltafaccia, di indifferenza, di dimenticanza, di presunzione, di superbia e di insoddisfazione, quell’eterna insoddisfazione dell’essere niente credendosi tutto, nella arroganza della paura di se stessi per pregiudizio, che ci allontana persino da chi ci ama soltanto, senza chiedere niente in cambio, nella luce del sole e sotto la pioggia…no, non parlo di te, uomodonnapensantepezzadapiedicheinventicannonieloromotivazioni… no, in tutto quel che sei, che sono, che siamo… non parlo di te… parlo di un gatto.
Animale, privo di sensazioni logiche se non quelle naturali che appartengono all’istinto. Animali che vivono, loro, gli stolti animali, senza frontiere, senza criteri di profitto, gli stolti animali. Mentre l’essere mai umano ma convinto di esserlo vaga all’infinito travolgendo ogni sensazione o sentimento nella certezza di una ragione che lo conduca alla perfezione delle atrocità che compie ogni istante: dalla brutalità della violenza fisica, che priva persino della vita, alle privazioni di puro e semplice affetto perché può far male più di una pallottola quella carezza non data, chiunque sia a non riceverla…un gatto, un bambino, un vecchio, io.
C’è un mondo animale che reclama la sua distinzione, quasi una vendetta. E l’avrà perché siamo freddi più di un serpente: vogliamo esserlo e quando non lo vogliamo, sappiamo di esserlo e di poterlo essere. Barriere, Distanze, Confini tra popoli interi come tra singoli affetti, tra amanti e, tutti clandestini.
Ma che crediamo di fare con il nostro corpo, dove il più bello è merce da quattro soldi, e con la nostra mente, quella che la vanità spinge sempre più in alto nella bassezza della differenza nelle diversità.
Ma non capiamo che il male di Dio, quel che chiamiamo destino, la morte, è la nostra unica speranza? La dignità di un gattino spaurito che lascia il suo affetto nei confronti del mondo che è in noi e in quell’ultimo rantolo, nell’ultimo moto avvinghiato delle zampette, nell’ultimo sguardo che si vela, quella sua dignità di morire di dolore è l’urlo del mondo vero contro di noi che lo abitiamo abusivamente tracciando limiti, solo limiti. Limiti fisici e limiti umani. Limiti agli spazi, ai principi, alle verità, agli amori. Limiti a noi stessi.
Umiltà, umiltà verso altri: questo insegna la morte alla morte stessa e noi, gli esseri umani, ci genuflettiamo chiedendo e dando perdono, ci ammassiamo dietro agli slogan che qualcuno scrive per noi, arroccati nelle nostre posizioni, pensierosi e afflitti da psicologie di incertezze e insoddisfazioni, promotori di progetti, di regole da seguire, di contabilità da far quadrare, di proprietà, di identità piene di rancore, noi che crediamo di essere al centro di ogni mondo con cui veniamo a contatto, noi, i padroni del nostro io, non siamo altro che oggetti, strumenti banali di scontro titanico tra il bene e il male convinti di non meritare la solitudine sublime dalla quale veniamo e quella sempre più vile verso la quale andiamo.
E voi, voi che avete parte della mia vita, voi chi siete? Mi ha dato più quel gattino che tutti voi messi insieme, sì, più di te che mi consumi con la scusa dell’azione. Ma se è così, perché lo scrivo? Forse per umiltà, o forse l’ho scritto senza motivo, guardando te allo specchio che guardi me che allo specchio ti guardo senza che nessuno, proprio nessuno di noi, tranne questo piccolo gattino che mi ha lasciato, smetta mai di farlo.
Che tristezza, tutto.
C’è. Scappino, ciao.
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