N.22 La vita morta
LA VITA MORTA
La musica, il teatro, l’arte nel suo esprimersi è anima della vita. Tutto il resto è corpo.
Nel dramma della incapacità di contrastare una nuova malattia che è antica come il mondo, cioè la aggressione epidemica di un virus frutto della modificazione della natura, possiamo ben dire che la classe dirigente, quella che gestisce il potere, nella sua fredda follia (magistralmente dipinta nel film dal titolo omonimo da Peter O‘toole), preoccupata di salvare l’esistenza della parte corporea del vivere, cioè l’economia, ha di fatto gettato alle ortiche la parte più labile, quella che tendeva al sublime, l’arte, l’anima della vita.
La genialità è diventa una categoria di lavoratori, inquadrabili in termini di produzioni a comando, serial, talk show, musiche pubblicitarie, immagini e opinioni finalizzati a mondi iper scontati dove, a causa dei riflettori mediatici, tutti si sentono Beethoven, Eduardo, Biagi. (Stendiamo un velo pietoso).
Risultato? Abbiamo una vita che è morta, ridotta se vogliamo usare la stessa metafora, ad ingozzarsi per mantenere in vita l’apparato digerente, tutti pronti ad intervenire sulle condizioni economiche con doni, ristori e redditi di emergenza nel nome della peggior solidarietà, quella che ha diviso ed ancor più divide il mondo. Solidarietà, dolce parola velenosa che nasconde il consolidamento dei rispettivi status. Di fatto è ciò che certifica a chi può il mantenimento della propria condizione grazie alla possibilità della elargizione che non muta affatto la condizione di chi non può che invece si vede persino umiliato da un aiuto, per un tempo sempre più limitato, mentre il peso della sua realtà viene addirittura marcato come standard (Fedez, con 2 milioni di euro apre il fondo privato per i lavoratori dello spettacolo. Ma di quale spettacolo, verrebbe da domandare? Quello suo sui social?)
E mentre muore la musica, il cinema e soprattutto il teatro, già mortificato nella sua trasmigrazione genetica sui palcoscenici delle squallide banalità ed i loro interpreti provenienti dalla TV, scende parimenti il livello di volontà del conoscere, della curiosità intellettuale, della esigenza estetica del concetto culturale del bello per far posto alle masse di “categorie” che, a seconda degli interessi di settore, hanno i loro “influencer” (una volta si chiamavano Pirandello o Flaiano) che determinano la spasmodica crescita della tecnologia che fagocita se stessa aspirando masse di esseri umani che vivono esprimendo solo bisogni corporali essendo il sistema giunto ad utilizzare le stesse emozioni, una volta prerogativa della pura esperienza intellettuale, per battere cassa e monetizzare (ricordate il piccolo John, ormai quarantenne, di Save the children da salvare? Adesso è suo figlio quello in Tv ancora da aiutare! Benefici della solidarietà, sic.).
Ed intanto il teatro, luogo di coscienza, riflessione e maturità, il Teatro, circostanza critica della società e dei suoi orpelli, abbandona del tutto questa responsabilità per colpa di un sistema che tende a trasformare ogni cosa in categorie di massa (ma le corporazioni non erano un simbolo del fascio?) privando non la libertà di espressione – per quella bastano e avanzano i talk show in cui ci si sparla solo addosso – ma la ben più profonda libertà di scelta.
Perché non si sceglie più, si subisce il palinsesto programmato dell’esistenza, ancor più obbligato in tempi di contagio, e tutto quel che vale è permettersi di partecipare al predisposto consumo creato e non alla autentica creatività intellettuale, ambigua parola che fa pensare a menti malate che cercano l’impossibile rispetto dell’individualità: roba da retroculto della personalità. Bentornata “guerra tra poveri”! Tutti perdenti. Campioni in negativo, quelli di spirito.
PATRIZIO RANIERI CIU © FABBRICAWOJTYLA 2020
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