PER IL SALONE INTERNAZIONALE DEL LIBRO DI TORINO.
La foto racchiude una consapevolezza, un mondo in movimento ed una umanità in regresso.
“Se leggi pensi, se pensi leggi” è una constatazione e in quanto tale certifica che quanto accadeva ai tempi dell’immagine fotografata leggere e pensare non era un sillogismo da evidenziare – come ora per cui c’è necessità di farlo perché non accade – bensì una costante naturale, una spontaneità di una umanità in pieno sviluppo culturale che scopriva la bellezza qualitativa dell’acculturamento. Ecco la consapevolezza. L’immagine bianco e nero di una Marilyn assorta è il mondo in eterno movimento da cui, lasciando o non traccia, comunque si scompare ed infine noi, di fronte ad essa ed a queste conseguenti considerazioni, siamo una umanità in regresso.
Il circolo è presto fatto: dall’età della pietra ad oggi, da cavernicoli abbiamo imparato a pensare e a costruire grazie al pensiero finché non lo abbiamo ingabbiato in sovrastrutture di logiche obbligate sempre più votate, con il supporto di una tecnologia consumistica imperante, alla determinazione di un pensiero unico quindi inesistente che sta riducendo l’umanità allo stato “ebete” cioè di assoluta incapacità di pensiero, quindi allo stato vegetale, ad uno stato primario che ci riconduce alla natura ma in modo indotto e privo di consapevolezza.
Questo è il futuro: un ebetismo incosciente di massa garantito dalla tecnologia sostitutiva del pensiero.
La responsabilità?
Dell’egoismo generazionale. Cioè di fasce specifiche di contemporaneità che tentano di garantirsi una costante confortevole del proprio status, ognuno cioè con un proprio standard minimo garantito di partenza che non si intende mollare ma solo accrescere in gratificazione.
Chi paga le conseguenze? Una unica categoria, i giovani.
I giovani, la sola risorsa reale di ogni civiltà, sempre più usati come scudo di illusione, pretesto di false motivazioni, scusa per promesse mai garantite. I giovani che vivono già l’ambizione della appartenenza: essere conglobati nell’una o nell’altra categoria pur di avere una sensazione di essere perché diversamente nulla ne evidenzia la esistenza.
Perciò “Devi morire!” grida ad un giovane poliziotto che le alza contro lo sfollagente (che molti si ostinano a chiamare manganello solo per negative assonanze concettuali) una giovane ragazza durante la manifestazione contro il genocidio in Palestina. Giovani entrambi e lì contrapposti ma a pensarci per uno stesso principio: tutelare un ideale di bene, nel nome della Pace. Ebbene, decontestualizzati, trasferiti su una spiaggia dei Caraibi, potrebbero persino innamorarsi l’una dell’altro.
É così che si cerca la pace o è così che matura la guerra?
Fisicamente le guerre di trincea non le fanno i vecchi o gli adulti, le fanno i giovani. Ed ai giovani soldati di un tempo, vittime innocenti che con grande dignità hanno perso la vita prima per un ideale di Patria poi nel tempo per aiutare altri a vivere nella libertà, oggi si assommano i bambini, le cosiddette speranze del futuro, le nuove ultime vittime di un sistema che non guarda più in faccia a nessuno.
Di fatto viviamo il nuovo mondo dell’indifferenza assoluta dove ognuno combatte una propria guerra. Non esiste alcuna differenza tra vittima e carnefice. Nella logica della sopraffazione la parte del leone la fa il protagonismo scardinando il principio essenziale della vita umana: la responsabilità dell’assunzione di un compito sociale.
Allora ce ne laviamo le mani inventando per i giovani nuove opportunità di lavoro ma solo per rispondere alle statistiche e mai offerte di reale possibilità di espressione culturale affinché nascano nuove soluzioni di ingegno che si traducano in impegno personale per la qualificazione della attuale società.
E in più cosa facciamo? Li indebitiamo con il PNRR, che in futuro essi dovranno ripagare.
Siamo gli inventori del debito futuro cioè coloro che hanno manovrato per poter gestire questo flusso di danaro con logiche di corruzione ataviche.
Ai giovani occorre invece sradicare la mentalità camorristica e fascista e totalitaria che è insita nella nostra società come zavorra che non permette alla qualità di decollare.
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